“Ero solito frequentare quel luogo, non so perché, ma era come ritrovare qualcosa di me che si stava perdendo. Lì… nell’avanzamento della mia coscienza è entrato l’inevitabile, qualcosa che accade senza ascoltarmi.” (ranofornace)
Pierdomenico “ranofornace” Scardovi-I Remember The Sea (Io Ricordo il Mare) 1979 (file originale)
“Angoli” (di ranofornace) 1975
Quando ti è stato dato il dono di un’anima e sei pronto ad accoglierne i frutti, occorre mettere in conto il dolore, la sofferenza del vivere, come un privilegio da consumare con la pancia piena e un tetto sopra la testa che l’intensità del proprio sentire è nulla, in confronto ai disagi che opprimono il mondo. Ma bisogna pur capire che la realtà di ogni uomo è una goccia di elementi molto complessa, caduta inavvertitamente sul pavimento della sua coscienza. Particelle che vivono e muoiono molto prima di quanto si possa pensare e non resta altro che prenderne atto nell’incomparabile moto delle sue azioni. Ci sono pareti che si restringono fino a chiudersi, per aprire porte all’angolo dell’ignoto.
L’immagine di “una porta che si apre su un cortile buio, dove, attorno ad un fuoco tutte le persone amiche e nemiche, lungi dalle loro bassezze o meriti, si prendono per mano, e guardandosi negli occhi cantano, in un lungo interminabile girotondo” (ranofornace), è il luogo della comunanza le cui azioni sono messe al bando come forme arbitrarie dell’insolutezza umana. Non ci sono presenze che emettono completezze valoriali o altre detentrici di negazioni, ma punti collegabili di una “captazione segnica” che contrasta o agevola le ragioni con cui si muove la coscienza tra il caos del mondo. Questo luogo privo di effetti, è il simbolo di un limite invalicabile: lo “Sceol”.
“Sceol”, è il termine ebraico dall’alto potenziale simbolico. Lo si può riassumere come l’insaziabile implosione della totalità delle anime, intesa come forza gravitazionale che le richiama a sé in un occulto deposito. Per il sottoscritto è il significato della “verità finale”, avuto dall’unione della bellezza con la morte. Ovvero, il primato, il valore e la qualità della percezione delle cose, attraversata dal peso della terminalità, che rimane l’inderogabile istanza a cui deve fare capo. Due entità di ragione differente, poste nell’unità simbolica di chi non sospende e non supera il giudizio etico-morale sulle azioni umane, da quelle lodevoli, agli orrori, fino alle diseguaglianze che dividono gli uomini, meritatamente o a torto. In questa posizione, trova invece sfogo il mio tentativo di accantonare il dogma cristiano della subordinazione etica della vita alla morte, per un’idea più fenomenologica dell’esistenza, per potere trarre conclusioni già da subito, se c’è da “pagare qualcosa”, nei confronti del prossimo, di chi si è trovato nell’incapacità di far valere i propri diritti e la propria dignità negati da questo mondo, da cui affiora tutta l’arrendevolezza del mio incorreggibile fatalismo. Ma ciò non esclude il mio volere vivere la morte “da sempre”, e in questa vita, come scambio simbolico per un’etica simbolica.
Può sembrare drastico, esasperante e profondamente fissativo, far emergere il brivido della negazione nell’unico vero dono che si ha, (link) invece di confondere la frustrazione con sostituzioni illusive di comportamenti e pensieri, come segni di perdurabile esistenza; in fondo, è una condizione costante della comunicazione. Il messaggio, pur sempre incombente, sottinteso e tralasciato, viene rimandato ad un tempo che non esiste, se non come insostenibilità del presente e non concede scampo. Può sembrare drastico, esasperante e insistentemente fissativo, evidenziare l’inevitabile attimo, sull’unico vero dono che si ha, per mezzo del quale fanno capo tutte le forze, e mescolare il brivido con l’illusione. Ma è sempre così, è l’idea della morte che induce a cercare l’esaudimento del senso della vita, muoverla ostinatamente con affanno e divorarla nei suoi ritmi per colmare il vuoto che la pervade. E’ la morte, il motore inesorabile dell’azione, colei che presenta il conto alla verità della vita.
La metafisica in poesia, è la sostanza immutabile dell’intuizione artistica. Mentre il canto poetico, veicola l’indefinibile voce dello spirito e percorre gradi di concretezza e astrazione colti nella temporalità discorsiva del testo, nel tentativo di penetrare con l’esilità del suo corpus, nei meandri del linguaggio poetico, per distogliere la parola dallo svolgere compiti “economici” e dileguarla dalla superficie della realtà. Gradi di astrazione che divengono così impalpabili quando, allontanati forzatamente dall’aprire il campo all’armonia e all’equilibrio del classicismo, al sentimentalismo e ottenebrazione del romanticismo, al descrittivismo del realismo e al sintetismo destrutturante del post-moderno, ricevono la spinta per compiere il volo più alto verso la sua origine, nel senso dell’assoluto metafisico, nell’ottica neo-idealista crociana.
E’ incredibile che l’importante, ciò che conta, sia un qualcosa di già accaduto, un qualcosa che è successo come se ingenerosamente non si fosse mai mostrato, ma subordina il fare artistico alla sua lezione. E’ l’inevitabile sentore della verità che spinge il vivere a mostrare alla coscienza, la sua riconoscibile riconducibilità. Una proposta che al momento non chiarisce nulla, o perlomeno si perde in embrioni concettuali, quando questa non si serve a sufficienza delle direttive della tradizione culturale occidentale come metro di confronto e sviluppo, e apre inevitabilmente interrogativi su cosa sia la lucidità di pensiero, giunto e supposto nel limbo dell’intuibile. Se non vale la pena farsi eroiche illusioni, può comunque collegarsi all’esperienza individuale dell’artista, come un tentativo di stimolare la sua percezione, di recuperarla, almeno nella forma più compensativa e in continuo movimento con le idee.
Sceol
In quel che rimane del giorno
ho dimenticato me stesso per riconoscerti
più di te è la sorprendente varietà dell’esistenza
più dell’affermata scontatezza della mia vita
ha varcato la soglia della solitudine
posto il sigillo sulla più intima domanda
per aprirsi la strada sul fare stesso della verità.
Posso chiamarti con quell’ansia solita
che di mia ti consegno?
L’atrocità della vita è quella in cui la mente
si lascia adescare da un turbinio di menzogne
mette sulle labbra un canto struggente
e pretende di vedere la luce.
Le voci irrompono in un ordine segreto
su ciò che resta di quel momento.
E’ un soffio trascorso nella consunta immortalità
a trapassare l’anima
cola paradossale e ostinato il tempo
nel disconosciuto bisogno di vivere
apre in me il foro sull’inammissibile voragine.
Ad uno ad uno scendono i tuoi capelli sul mio viso
come pioggia tra le mani del cielo
bagna le foglie affastellate
sui cancelli micacei delle nuvole.
Il vento arricciolato al ceppo eliso le desta
dalle anche patibolari.
Io ricordo lo strazio delle altalene
quando le lacrime diventavano diamanti
tacitamente irruppe tutto intorno
e nel cuore il fuoco prosciugò la sete.
Non posso rivedere ad occhi aperti
le nebbie assorte dei lunghi viaggi
ma risvegliare se morire è già un po’ dentro
l’amore che ho per te come uno spasmo.
Avere un cuore oltre il limite
non essere già più da sempre solo
ti potrei dire che tu potresti riascoltare
poi tutto me stesso.
Dovrei assillarmi di rinunce
cercarti tra gli echi della paralisi
fa del mio volto dove cade il cielo
dove possa lo sguardo immergersi
rispecchia torbido nella pozzanghera
nel crogiolo di mille ferite il mondo
il perduto tutto… si annienta.
Ho appeso il cielo ad un filo
per asciugarlo dalle lacrime che versasti
nel tempo in cui non eri
per adagiarlo sulle rive del mio tumido cuore
perché potesse schiumarsi sulle secche
e portarmelo via leggero.
Ha nel volto un sorriso di raso
la marionetta diafana di mollica rosa
che danza sul ghiaccio dei tuoi occhi.
Ascolta al crepuscolo il sibilo del vento
fra i ciliegi geme il suo pianto
è la musica dei morti
che porgono la guancia sulla tepida vita
laddove la pioggia pizzica di carezze l’alba
echeggia scioglimento.
Pierdomenico “ranofornace” Scardovi 1983
Uscendo dalla tipicità formale dei versi e dai canoni delle metriche della poesia classica (settenario, endecasillabo), nonché dai temi romantici (sentimentalismo, irrazionalità) e adottando la “rarefazione” e la “densità” come finalità espressiva, “Sceol” (1983) tenta, nella tendenza frenante del linguaggio, di contrastare la motilità della vita, il fenomeno. Di staticizzare l’inevitabile scorrimento del tempo che lascia sulla sua scia la definizione di ogni immanenza: “l’individuazione, la descrizione, l’elaborazione” a scapito dell’ente di tutto il sentire, cioè, ciò che sente colui che nella poesia in questione ha posto il suo sentire come flusso morente dentro le parole scelte e combinate, e anche fuori per incapacità. E non è tutto, ma anche di colui che legge e come coglie l’ente della poesia in questione, ovvero il prodotto inverificabile, che stabilirebbe l’ente stesso della poesia in questione, una frazionamento insanabile del “tutto unito”, inarrivabile e impercepibile.
“Sceol” (1983) è composta da quattro strofe, ognuna di quindici versi liberi, contiene tra l’altro 5 endecasillabi: “Posso chiamarti con quell’ansia solita / sui cancelli micacei delle nuvole / avere un cuore oltre il limite / fa del mio volto dove cade il cielo / rispecchia torbido nella pozzanghera”; 2 settenari: “che di mia ti consegno? / echeggia scioglimento”.
“Io ricordo il mare” (1979). Continua la serie dei canti prolungati, delle preghiere come inni. Sono sussulti di onde, il loro infrangersi e distendersi sulla melodia. Appare per il sottoscritto come un’opportunità “dissolvente”, ante litteram. Pierdomenico Scardovi (chitarra elettrica, chitarra acustica, voce)
Parchment “Unzione V” (2015). Lo scarto fra l’immagine interiore e la sua figurazione è il suo prodotto. In fondo è ciò che ancora rimane dell’arte. Occorre considerare Il prodotto della percezione visiva, dipendente dall’immagine interna, come la variante/risultante dell’opera. Un problema ontologico, non del tutto risolto che condizionerà l’arte anche in questo secolo.
“Ho lasciato tracce della mia solitudine in quel luogo sacro e mi accingo a varcare i cancelli per infondere il silenzio fin dove arrivano i pensieri, cumuli di tristezze nei quali se ne vanno come sostegni molti dei miei sogni. E’ quel frammento di farfalla, spazzato via dal pensiero di un piccolo pensatore, a bruciare tra le rovine del suo ricordo, come lo sguardo inebetito di un bimbo che vede disfarsi, troppo vicino all’onda, il suo castello di sabbia.” (ranofornace)
Pierdomenico Scardovi
foto in evidenza “captazione” (di Serena Scardovi)
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